“Tutti cadaveri”

Manfredo Occhionero

8 Agosto 2024 | Sicurezza sul lavoro | 0 commenti

Alla fine dell’agosto del 1956 gli occhi del mondo erano puntati tutti sul Medioriente per quella che è passata alla storia come la “crisi di Suez”.

L’allora presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser aveva nazionalizzato il canale di Suez scatenando l’ira della Gran Bretagna che aveva fortemente investito nella realizzazione di quell’opera faraonica (mai aggettivo fu più pertinente, data la territorialità della vicenda).

Questo antefatto farà da detonatore per l’ennesima guerra nella martoriata regione mediorientale che si concluderà con il cessate il fuoco nel 1957; un accordo accettato dalle parti in causa anche grazie all’iniziativa di Lester Pearson, ministro degli esteri canadese, che ebbe l’intuizione di proporre all’assemblea il primo mandato di peacekeeping dell’ONU.

Erano nati i “caschi blu” e Pearson vinse il premio Nobel per la pace.

In questo contesto internazionale così complesso, non stupirà sapere che la notizia arrivata al sorgere del giorno dal piccolo e “anonimo” Belgio il 23 agosto 1956 passasse in secondo piano sui giornali dell’epoca.

Ore 3:25 il soccorritore Angelo Berto risale in superfice da quota (meno) 1035 metri.

Con gli occhi pieni di terrore annuncia, disperato: “tutti cadaveri!”

Iniziamo questa storia dal principio.

Nel 1945 l’Italia, a guardare i PIL dell’epoca, non era certo da considerarsi uno dei paesi più poveri del mondo eppure, il 90% degli italiani era privo, in casa, di almeno una delle moderne comodità (elettricità, acqua corrente potabile e servizi igienici) e, dopo il conflitto mondiale, moltissimi italiani non avevano proprio una casa (si stima che il 10% delle abitazioni fosse inagibile a causa dei bombardamenti).

Il nostro paese usciva stremato dal ventennio fascista e dalla seconda guerra mondiale.

In questo complesso contesto storico, economico e sociale, in linea con altri accordi bilaterali simili stretti dal regime fascista con la Germania di Hitler, l’Italia, alla ricerca di materie prime, concluse accordi con il Belgio per degli scambi “braccia in cambio di merci”.

Tradotto in pratica: l’Italia avrebbe mandato “le braccia”, il Belgio avrebbe concesso il carbone; nello specifico, in base all’accordo del giugno del 1946, per 50.000 lavoratori, l’Italia avrebbe ottenuto ogni anno fra i due e i tre milioni di tonnellate di carbone a prezzo preferenziale.

Era un vantaggio per entrambi i paesi: noi avevamo disperato bisogno di materie prime e loro, altrettanto disperatamente, di forza lavoro.

A partire dagli anni ’20, infatti, la manodopera belga iniziava a scarseggiare poiché i lavoratori locali avevano capito bene che razza di posto di lavoro fosse una miniera.

Il Belgio soffrì di questa drastica diminuzione di personale tant’è che il governo dell’allora ministro Achille Van Akher tentò di presentare la figura del minatore come quella di un “salvatore della patria”, esonerando i volontari dal servizio militare e offrendo loro diversi benefit.

Nulla da fare: i lavoratori belgi non ne volevano più sapere di scendere in miniera.

Anche per il Belgio si rese, così, indispensabile, passare all’azione e trovare una soluzione.

Questo spiega il perché, di lì a poco, in tutte le città d’Italia, fino all’ultimo del più piccolo dei paesi di provincia, apparvero manifesti rosa nei quali la Federazione Carbonifera Belga illustrava le allettanti condizioni di lavoro proposte:

Paga regolare, ferie pagate (sei giorni garantiti), treno pagato (con viaggio della durata di sole 18 ore), alloggio (poi vedremo di che tipo), carbone gratuito per usi domestici e possibilità di immediato ricongiungimento familiare.

Foto dell’autore scattata nel sito di Bois du Cazier 2024

Considerata l’offerta allettante e la situazione italiana che era fatta di molta disoccupazione, col 40% dei lavoratori impiegato nell’agricoltura e con il 45% dei maschi maggiorenni di ogni regione e ceto sociale che desiderava espatriare, non è difficile intuire il risultato:

Si presentarono a frotte.

L’opera di reclutamento, smistamento e (un minimo) di selezione, fu inizialmente ad appannaggio degli uffici di collocamento locali, poi la gestione passò direttamente alla Fédération charbonière de Belgique.

Erano troppi, secondo loro, i lavoratori che venivano ammessi dagli uffici di collocamento italiani seppur considerati inadeguati in quanto delinquenti, malati, del sud Italia o comunisti.

I “macaronì”, questo era il dispregiativo utilizzato dai belgi per appellare i nostri connazionali, una volta passata una superficiale visita medica, venivano trasportati a blocchi di 1000 alla settimana su treni speciali in partenza da Milano Centrale.

E lì molti di loro iniziavano a capire, fin da subito, che non era tutto rose e fiori a partire dai tempi del viaggio verso il Belgio che, anziché le 18 ore promesse, durava dalle 48 alle 72 ore a seconda del luogo di partenza e di destinazione finale.

Il comitato di accoglienza caricava i lavoratori su camion logori e pieni di polvere di carbone per trasportarli nella zona della “mina” assegnata (così in gergo i nostri connazionali si riferivano alla miniera).

Solitamente, questo avveniva il giovedì in modo che il venerdì i nuovi lavoratori avessero il loro primo approccio con le viscere della miniera.

Per circa la metà di loro quel primo “giretto” in profondità era anche l’ultimo, troppo scioccanti le condizioni di lavoro: quasi tutti i renitenti chiedevano, invano, di essere assegnati a lavori in superfice, gli altri agognavano direttamente il rimpatrio.

Tutti coloro che si rifiutavano di riscendere nei pozzi venivano affidati alla polizia dell’immigrazione accusati di avere stracciato il contratto di lavoro firmato in Italia.

Venivano pertanto arrestati e condotti nella più vicina prigione prima di essere tradotti al “Petit Chateaux” di Bruxelles (che nome carino per una caserma militare) prima di essere rimpatriati.

Chi decideva di restare aveva, poi, il problema dell’alloggio.

Il governo belga era rimasto tremendamente indietro rispetto all’ambizioso programma che si era dato di costruire 25.000 alloggi per i minatori ma questo non fu ritenuto un grosso problema dalle autorità in quanto gli italiani si accontentavano di vivere (o, meglio, sopravvivere) nei baraccamenti degli ex campi di prigionia usati durante la guerra che furono riconvertiti alla bene e meglio.

A Marcinelle ce n’erano due: uno con le baracche in legno vicino al pozzo di Monceau-Fontaine e uno con le baracche in metallo a Sart Saint-Nicolas.

Un minatore così descriveva la situazione:

“l’acqua scarseggia: non solo quella potabile che viene distribuita una volta al giorno, sia d’estate che d’inverno, con un’autobotte, ma anche quella per usi domestici… inutile dire che nelle case non c’è corrente elettrica e l’illuminazione è generalmente ad acetilene o ad olio”.

In fin dei conti, e questo era tristemente vero, i belgi pensavano che le condizioni degli alloggi non fossero poi così dissimili da quelle a cui i nuovi lavoratori erano abituati nei loro piccoli paesi di origine.

I minatori che non avevano famiglia, solitamente, venivano assegnati inizialmente nelle foresterie della compagnia carbonifera ma quasi tutti, appena possibile, fuggivano da questa soluzione in quanto la sensazione di essere sempre controllati era molto forte.

Ci si rivolgeva quindi ai privati che, come in ogni epoca e in ogni angolo del mondo, guidati dall’avidità, si approfittavano della situazione mettendo a reddito ogni singolo metro quadrato che avevano a disposizione.

Ambienti di vita indecenti, ambienti di lavoro molto insalubri e pericolosi al limite dell'”accettabile” all’epoca e decisamente fuori dalla moderna concezione di un posto di lavoro di un paese civile di oggi.

Le autorità belghe nel febbraio del 1956 (quindi prima degli eventi che sto per raccontarti) dichiararono che fra il 1947 e il 1955, nell’intero comparto minerario carbonifero belga ci furono 1164 vittime (di cui 435 italiane).

Ma in realtà i dati che furono forniti erano incompleti se non addirittura manipolati: le “morti bianche” in miniera, in base alla legge belga dell’epoca, per poter essere riconosciute come tali, avevano bisogno della “flagranza di decesso” nella struttura.

Se morivi in ospedale, non era una cosa che riguardava la società carbonifera che, in questo modo, non doveva alcun indennizzo.

La situazione nei pozzi era davvero drammatica e si andava avanti come nulla fosse per evidentissimi interessi.

A conti fatti, perché ammodernare e mettere in sicurezza dei pozzi di estrazione che da lì a un decennio sarebbero stati comunque chiusi in quanto non più produttivi?

E così si continuava a lavorare con carrellini tirati ancora in parte da cavalli, con ascensori del tutto inadeguati, con porte di “compartimentazione” in legno e non in ferro, con impianti elettrici fatiscenti e via dicendo.

Un esito scontato.

Bois du Cazier, Marcinelle, distretto minerario di Charleroi, 8 agosto 1956.

Foto dell’autore scattata nel sito di Bois du Cazier 2024

Come tutte le mattine i circa 25.000 minatori del comparto carbonifero di Charleroi erano all’opera, alcune centinaia dei quali nei tre pozzi del Bois du Cazier.

In uno di questi pozzi alle otto di un soleggiato mattino, 274 lavoratori si erano calati a meno 975 metri e, all’improvviso, qui si scatenò l’inferno.

Alle ore 8:10, a causa di un malinteso, la gabbia di discesa si avviò anzitempo verso la superficie.

Questo banale contrattempo scatenò una serie di eventi a catena davvero impressionanti che sono anche difficili da sintetizzare e semplificare, ci proverò:

Un carrello, durante la risalita, agganciò una trave che a mo’ di ariete danneggiò seriamente una canalizzazione dell’olio a pressione, deteriorò due cavi elettrici e, tanto per non far mancare anche il terzo elemento del triangolo del fuoco (combustibile, ossigeno, innesco), provocò la rottura di una tubazione di aria compressa.

Nelle parti elettriche danneggiate, si formarono degli “archi elettrici” che innescarono l’olio nebulizzato il quale, accelerato dall’ossigeno immesso dall’aria compressa, generò uno spaventoso incendio.

Le strutture vicine (guide, armature e travi), tutte in legno, presero fuoco in pochi istanti.

Alcuni operai riuscirono a scappare in superficie e a dare l’allarme.

Nonostante i disperati tentativi di soccorso, alcuni dei quali veri gesti eroici, solo sei lavoratori vennero tratti in salvo.

La tragedia fece 262 vittime (136 italiani, 95 belgi, 8 polacchi, 6 greci, 5 tedeschi, 3 algerini, 3 ungheresi, 2 francesi, 1 inglese, 1 olandese, 1 russo e 1 ucraino).

Furono commessi anche errori nei soccorsi che ci appaiono oggi molto gravi.

Ad esempio, il tentativo dell’Ing. Bochkoltz, direttore della centrale operativa di salvataggio, che fece pompare acqua a profusione all’interno dei cunicoli per cercare di preservare quel che restava degli stessi.

Non so se lo sapete ma 1 litro di acqua portato allo stato gassoso genera un volume di oltre 1000 litri di vapore.

Il vapore non contiene ossigeno in forma respirabile e ed è quindi, di fatto, un asfissiante poiché col suo volume, espelle l’aria che, al contrario, lo contiene.

Questa operazione, pertanto, saturando le gallerie di vapor d’acqua, compromise visibilità e respirabilità nel sottosuolo.

Le operazioni di salvataggio proseguirono a profondità diverse per quindici giorni.

Operazioni di soccorso.
Foto dell’autore scattata nel sito di Bois du Cazier 2024

I corpi vennero recuperati con tantissimo ritardo; in alcuni casi dopo dei mesi.

Poi iniziò l’ingrato compito del riconoscimento delle vittime.

All’epoca, nel pozzo di Cazier, l’unico modo di sapere l’identità dei lavoratori era, pensate, associare le persone alle lampade personali che, in questo caso, furono trovate molto distanti dai corpi rendendo vano questo tentativo di abbinare un corpo ad un nome.

Le vittime furono in seguito riconosciute dai familiari nell’obitorio del centro medico di Charleroi basandosi su piccoli dettagli come frammenti dell’abbigliamento o cose simili.

Operazioni di identificazione lunghe, lunghissime.

Tre cadaveri hanno addirittura visto un riconoscimento solo lo scorso mese di marzo 2024 grazie alle indagini sul DNA.

Ad oggi sono ancora 11 i corpi che non sono stati riconosciuti.

L’inchiesta tecnica che seguì la tragedia fu iniziata principalmente per scoprire le cause del disastro e non per stabilire se ci fossero dei colpevoli.

Dall’inchiesta partì poi un’indagine con il relativo procedimento penale e civile che terminò, nel 1961, con un esito scontato: nessun dirigente fu giudicato “colpevole” del reato di omicidio colposo.

Solo l’ingegner Adolphe Calcis venne condannato a 6 mesi di reclusione (pena sospesa con la condizionale) e al pagamento di una multa irrisoria di 2.000 franchi, pari a circa £25.000 dell’epoca (meno di €400 attuali considerata anche la rivalutazione monetaria).

Furono infatti ritenute “irrilevanti” le gravi carenze strutturali della miniera, la totale assenza di estintori, l’arretratezza delle scelte costruttive e gli altri incidenti analoghi capitati nel pozzo prima del 1956.

Così come fu ritenuta non rilevante la confusa segnaletica acustica di emergenza nei pozzi, e, udite, udite, fu ritenuto normale che gli “esperti” chiamati in causa non sapessero che l’olio minerale è un elemento infiammabile.

La buffonata (non trovo altro termine, scusate) fu completata condannando le famiglie delle vittime al pagamento delle spese processuali.

“Abbiamo letto con viva soddisfazione la sentenza del tribunale correzionale di Charleroi che chiude i dibattiti relativi al tragico incendio del charbonnage del Bois du Cazier. Ci teniamo a dirle che siamo particolarmente felici dell’esito del processo e le esprimiamo la nostra simpatia.”

Con queste parole la Federazione dei Carbonieri gioiva per la sentenza.

Dopo l’8 agosto del ’56 cambiò profondamente la considerazione sociale degli italiani in Belgio.

I nostri connazionali immigrati, che avevano condiviso con i belgi quella tragedia, non vennero più chiamati “macaronì”.

Chi oggi si reca al Bois du Cazier viene accolto dal silenzio assoluto del posto che stride con quanto si poté udire in quel luogo in quei drammatici giorni: sirene ululanti, urla di disperazione, istruzioni strillate dai soccorritori alla bene e meglio, pianti inconsolabili dei familiari tenuti per giorni fuori dal cancello a sperare invano.

Camminare in questo luogo è un tuffo nella memoria, è venire avvolti da un inspiegabile senso di gratitudine e di profonda commozione.

Ognuno ci potrà trovare un insegnamento, uno spunto per riflettere, o semplicemente un’emozione.

Io ho preso coscienza, ancora una volta, che la storia è sempre ciclica e si ripete, c’è poco da fare.

Ottant’anni fa si partiva dall’Italia per cercare un futuro migliore per sé stessi e per le proprie famiglie e, dopo essere stati insultati, vessati e spremuti, si poteva anche morire nelle viscere di una miniera.
Oggi chi parte per gli stessi motivi dalla terra natia, viene ugualmente insultato, vessato e spremuto e può anche morire in un campo mentre sta raccogliendo frutta e pomodori.

Foto dell’autore scattata nel sito di Bois du Cazier 2024

Note dell’autore:

Nel marzo del 1957 una conferenza della CECA (Comunità Economica Carbone e Acciaio), quella che poi sarebbe diventata nel 1992 l’Unione Europea, dettò nuove regole per la sicurezza nelle miniere (ennesimo caso del tentativo di chiudere le stalle dopo che i buoi sono scappati).

Fra le “novità” salienti vennero fra gli altri introdotti il divieto di lavoro ai minori di 18 anni nelle parti sotterranee dei siti minerari e l’obbligo di mettere a disposizione “maschere” di emergenza per i minatori per poter respirare in caso di incendio.

Poiché la tragedia si verificò, sostanzialmente, proprio a causa di un incendio, venne anche completamente riscritto il Codice delle Miniere che, incredibilmente, non prevedeva nulla in merito, tant’è che fu scritto e introdotto nel Codice, per la prima volta, il capitolo “fuochi e incendi”.

Dopo la tragedia, il Bois du Cazier, concepito nel 1882, venne quindi rimodernato ma la sorte del sito era ormai segnata: sebbene le attività estrattive ripresero nell’aprile del 1957, termineranno definitivamente nel dicembre del 1967.

Dal 2012, grazie anche ad una straordinaria mobilitazione di associazioni italiane, il sito è diventato “patrimonio UNESCO” e può essere visitato.

È un viaggio da fare magari, come ho fatto io, dopo aver visitato alcune bellissime città del Belgio.

È un passaggio da conoscere della nostra storia.

È la volontà di rendere omaggio ai nostri connazionali, ma non solo a loro, che partirono pieni di speranze dalle loro terre e non vi tornarono mai più scrivendo così tristi vicende che andrebbero tramandate.

A tale proposito cito il bellissimo libro di Toni Ricciardi “Marcinelle, 1956” (dalle cui pagine ho attinto abbondantemente) che è pieno zeppo di dati dettagliatissimi e di storie di “prima mano”.

Come quella del piccolo comune abruzzese di Manoppello in provincia di Pescara.

Su un totale di 174 vittime italiane, 60 erano di origine abruzzese e ben 23 di loro erano proprio di Manoppello che, all’epoca, contava su poco più di 6.000 abitanti.

Questo articolo è dedicato alla memoria dei miei zii Pietro (Petruccio) e Nicolino che hanno lavorato nelle miniere di Charleroi fino alla loro pensione pagando un caro prezzo in termini di salute e che oggi non ci sono più.
Sono dolci i ricordi estivi che legano me, i miei fratelli e i miei cugini ai nostri zii.
Tornavano in macchina dal Belgio senza mai fermarsi per non sprecare un solo minuto da trascorrere in Italia.
La sera, a volte, ci raccontavano storie di vite difficili, di miniere e minatori, di fatica e di sacrifici e ci regalavano tanta cioccolata belga buonissima.
Se chiudo gli occhi, ne sento ancora il profumo e il sapore.

Fonti e approfondimenti:

https://it.wikipedia.org/wiki/Crisi_di_Suez

https://it.wikipedia.org/wiki/Canale_di_Suez

https://it.wikipedia.org/wiki/Disastro_di_Marcinelle

https://europa.today.it/unione-europea/68-anni-disastro-marcinelle-identificati-due-italiani-morti-miniera.html

https://www.ilpost.it/2016/08/08/miniera-marcinelle

https://rivaluta.istat.it/Rivaluta/Widget/calcolatoreWidget.jsp

https://comune.manoppello.pe.it/notizie/249155/omaggio-manoppello-minatori-marcinelle-64

https://www.comuni-italiani.it/068/022/statistiche/popolazione.html

Marcinelle, 1956 di Toni Ricciardi. Donzelli editore, 2016

Da Roma a Marcinelle edizioni Le Bois du Cazier 2011

<a href="https://www.alphaconsulting.it/author/manfredo-occhionero/" target="_self">Manfredo Occhionero</a>

Manfredo Occhionero

Lavoro nel settore della sicurezza e salute nei luoghi di lavoro dal 1998. Sono RSPP, formatore, responsabile scientifico di progetti formativi e della piattaforma e-learning di Alpha Consulting. Facilitatore del metodo LEGO SERIOUSPLAY®, CHO, Lead auditor ISO 45001:2018 e disablity manager. Scout nel DNA, perito chimico quasi per caso, appassionato di football americano ma parigino di adozione.

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